“Il Partito è stato il mio hobby”. Con queste parole Vittorio Paladini ha esordito nella presentazione del libro che illustra la sua vita: “Mi sposai in bicicletta”.
Ha attraversato il Novecento con la normale eccezionalità di chi è costretto a vivere tempi difficili:
“Chi non ha visto la disfatta dell’esercito, non ha visto niente della vita. Quando Badoglio annunciò la fine della guerra pensavo di tornare in paradiso e invece la realtà era peggio di prima, eravamo braccati dai tedeschi nella stessa maniera in cui i cacciatori braccano le lepri”.
Nei suoi racconti, che ascolteresti per giornate intere, si alternano in maniera naturale Nilde Iotti e i barrocciai di Calenzano, Massimo D’Alema e il farmacista del Paese, ma un posto speciale spetta al maresciallo dei carabinieri Pierantozzi che gli salvò la vita, ucciso dai repubblichini e pure per molti anni considerato a torto un collaborazionista.
L’onore di mettere ordine ai suoi pensieri è toccato a Matteo Boldrini che si è avvalso della collaborazione di Andrea Gabellini per raccogliere la testimonianza di questo uomo della Piana Fiorentina: Io, Vittorio Paladini, sono nato sabato 19 novembre 1921 e… “Mi sposai in bicicletta”.
“Ricordo un giorno, intorno al ’50, che mia moglie venne a svegliarmi ( andavo a letto presto perché facevo il fornaio e alle due entravo a lavorare) dicendomi: – Alzati Vittorio, c’è Don Milani in casa. Don Milani in casa? Porca miseria. Andai di là e gli dissi:- Padre, l’è venuto in casa del diavolo. Ma quale diavolo Paladini, l’è che m’hanno mandato da lei perché ho bisogno di bambini per la scuola e i democristiani non me li mandano”. Sì perché dicevano che noi comunisti si mangiava i bambini, ma i democristiani gl’erano più cattivi.
STEFANO NICCOLI