Dalla guerra al palcoscenico, per riscattarsi dalla vita e per ricominciarne una nuova. I migranti ospiti del centro di accoglienza di Polcanto in Mugello, gestito dalla cooperativa Il Cenacolo, hanno partecipato ad un progetto teatrale che è diventato molto più di uno spettacolo. Si chiama Parembolè, nato un anno fa da un’idea della regista Ilaria Cristini, e che ora prosegue con il Laboratorio Nove House. Dei dieci ragazzi che aveva preso parte al progetto, due profughi scappati dalla dittatura del Gambia si sono distinti per il loro talento, Kebba e Muhammed. Grazie ad una borsa di studio offerta dal Laboratorio, ora possono partecipare al corso propedeutico annuale della scuola e a giugno saranno in scena con gli altri attori per il saggio finale al Teatro della Limonaia di Sesto Fiorentino. Perambolé, dal greco antico ‘accampamento militare,’ è andato in scena lo scorso settembre nel loggiato del Museo del Novecento in piazza Santa Maria Novella a Firenze, prodotto da Attodue-Laboratorio Nove e Estate Fiorentina 2016. Nove tende, come un accampamento, per materializzare la tragedia dei migranti in un luogo simbolo del mondo occidentale. Per i due ragazzi l’esperienza teatrale è poi proseguita e continua ancora oggi.
“Quando ho conosciuto i ragazzi – spiega Cristini – ciò che mi ha colpito più di ogni altra cosa non è stata la disperazione e la solitudine, ma la loro bellezza, l’energia e la vitalità. Il desiderio, nonostante tutto, di tentare di essere felici. Ho deciso quindi di raccontare in questo progetto artistico non la tragedia, ma la bellezza delle loro culture e delle loro tradizioni per sconfiggere la paura della diversità ed accettarla come una risorsa. Il Laboratorio è sì un lavoro propedeutico, ma è soprattutto un inizio”. “Integrarsi e imparare l’italiano è fondamentale per questi ragazzi – commenta David Delle Cave della cooperativa Il Cenacolo – e gli strumenti per farlo sono tantissimi e diversi. Il teatro aiuta i migranti a stabilire un contatto con gli italiani, a conoscere persone nuove e la società che li ospita da una prospettiva diversa. Lo stiamo vedendo con Kebba e Muhammed: si può comunicare tanto non solo attraverso le parole, ma anche attraverso l’arte e il palcoscenico”.