1 marzo 1556 – Il Terremoto di Anton Francesco Doni

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Cosimo I a cavallo
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Firenze 365, la rubrica curata da Daniele Niccoli, autore del libro omonimo edito da apice Libri 

Fatti e aneddoti legati alla storia della città di Firenze raccontati giorno per giorno

Un aiuto per conoscere la nostra semenza e per intuire il nostro futuro.

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti
me per seguir virtute e canoscenza   (Dante, Inferno, canto XXVI)

1 marzo 1556 – Il Terremoto di Anton Francesco Doni

Anton Francesco Doni fu uno scrittore tanto prolifico quanto singolare. Nacque a Firenze nel 1513, ma il suo spirito inquieto lo portò a girovagare per gran parte della penisola. Tra le sue ultime tappe vi fu Venezia dove diventò membro dell’Accademia Pellegrina con il nome emblematico di Bizzarro. La sua vita si concluse a Monselice dove aveva vissuto in un torrione da cui era solito uscire solo di notte e completamente nudo.

Per gran parte della sua vita fu molto amico di Pietro Aretino, ma quando questi si rifiutò di interpellare Guidobaldo II Della Rovere duca di Urbino affinché raccomandasse Doni a Cosimo I, l’amicizia si trasformò in odio e disprezzo.

Dal dissenso nacque un libello, il Terremoto del Doni fiorentino con la rovina di un gran colosso bestiale Anticristo della nostra età, in cui il Doni inveisce contro il vecchio amico fino a predirne la morte entro l’anno. L’opera doveva essere divisa in sette libri: Il Terremoto, La Rovina, Il Baleno, Il Tuono, La Saetta, La Vita e la Morte, Le Esequie e la Sepoltura, ma soltanto il primo ha visto la luce, il primo marzo 1956, perché l’Aretino morì veramente il 31 ottobre di quell’anno, 1556, e il Doni, a quel punto forse si è sentito soddisfatto. Il rapporto fra il Doni e Pietro è rappresentativo della sintonia esistente tra fiorentini e aretini: amici fino a quando conviene, nemici fino alla morte quando gli interessi sono contrastanti.

Secondo le testimonianze di Franco Sacchetti e di Giorgio Vasari, un altro spirito libero, il pittore Buffalmacco, dimostrò a modo suo cosa pensava degli aretini. Era successo che il vescovo di Arezzo, Guido Tarlati, aveva ordinato al pittore di dipingere un’aquila (simbolo di Arezzo) che sbranava un leone (simbolo di Firenze). Come tutti i pittori del Trecento, Buffalmacco si mise al lavoro facendo uso di teli per proteggere l’opera da occhi indiscreti prima che fosse compiuta. Al termine dei lavori tornò furtivamente a Firenze nella consapevolezza che il vescovo non avrebbe gradito la sua opera: il ruolo dei personaggi era stato capovolto e l’aquila aretina aveva fatto una brutta fine tra le fauci del leone. Il Tarlati inizialmente condannò a morte Buffalmacco, ma poi, resosi conto che il pittore aveva soltanto risposto alla sua burla, lo perdonò e, anzi, gli commissionò altri lavori.

La ricostruzione del Vasari (che peraltro era aretino) appare intrisa di troppa bontà e benevolenza per essere vera, anche perché sarebbe in netta contraddizione con quel che ci ha insegnato il Sommo poeta a proposito degli aretini:

Botoli trova poi, venendo giuso,
ringhiosi più che non chiede lor possa,
e da lor disdegnosa torce il muso   (Dante Alighieri)

DANIELE NICCOLI

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