Erano settantadue. Ognuno aveva una bicicletta, ma non erano ciclisti del giro d’Italia, bensì lavoratori della Richard-Ginori. Erano diretti a Milano decisi ad incontrare i vertici della storica manifattura nata nel 1735 a Sesto Fiorentino per protestare contro la riduzione del personale decisa dalla direzione.
I problemi erano iniziati nel 1951 quando i dirigenti della Richard-Ginori annunciarono il licenziamento di 338 operai. Cominciò allora una lunga lotta sindacale che condusse all’occupazione della fabbrica e ad una parziale vittoria dei lavoratori che videro ridurre il numero dei licenziati a 150.
Si trattava, però, soltanto di una tregua. Infatti il 15 febbraio 1954 i dirigenti della manifattura decisero di ridurre ulteriormente le maestranze, colpendo in particolare gli operai più politicizzati. Con il sostegno della cittadinanza fu decisa allora una nuova forma di protesta: una carovana di lavoratori, guidata da Mario Menicacci, si sarebbe recata in bicicletta alla sede milanese della Richard-Ginori per protestare contro il provvedimento. Sulla schiena gli improvvisati ciclisti indossavano un foglio bianco con una scritta rossa: “Licenziato dalla Richard-Ginori di Doccia – Firenze“. Durante il tragitto ricevettero la solidarietà delle popolazioni dell’Emilia-Romagna e della Lombardia. Della loro impresa si occuparono diversi giornali. Gli operai furono ricevuti dai dirigenti, ma non ottennero grandi risultati dal punto di vista sindacale.
I lavoratori, però, non si arresero. A luglio si rimisero in sella: gli 85 in partenza da piazza Ginori volevano far sentire la loro voce davanti al Parlamento. Purtroppo anche a Roma, così come a Milano, non andò bene. Anzi, le biciclette – come c’è scritto nell’articolo pubblicato da La Nazione (foto in evidenza) – furono sequestrate: “La polizia romana agli ordini di Scelba (il democristiano Mario Scelba, ndr) ha commesso un nuovo, inqualificabile sopruso, bloccando alle porte della capitale la colonna degli ottanta operai di Doccia e sequestrando loro le biciclette. Nessuna giustificazione dell’arbitrario provvedimento è stata data (…) Dopo il sequestro, agli operai, malgrado il loro fermo atteggiamento di protesta, si faceva persino divieto di proseguire a piedi, incolonnati“. Continua l’articolo: “Il governo non potrà impedire che le 50.000 firme, primo atto necessario per cedere all’esproprio dello stabilimento di Doccia che i padroni tengono inattivo da quasi cinque mesi, possano essere presentate in Parlamento“.
Uno dei protagonisti di quegli episodi fu Dante Arrighetti. Abbiamo fatto una bella chiacchierata con la moglie, Marcella Nencini, e la figlia, Tania. Nella foto di giornale che vedete in alto, il ragazzo in partenza con cappellino bianco e ciabatte è proprio Dante. Dietro di lui c’è Marcella, impegnata ad attaccargli sulla schiena il foglio bianco sopra citato.
“Mio marito lavorava alla Richard-Ginori agli isolatori della corrente. Purtroppo non ricordo esattamente quando fu assunto. Lui era del 1926 e lavorò in Fabbrica per sette-otto anni – dice Marcella – Per lui lavorare alla Ginori rappresentava la sicurezza economica e il futuro. Non c’era niente di meglio che lavorare lì.
Non avrei voluto che andasse a Milano anche perché allora non c’erano i mezzi di comunicazione di oggi ed era difficile avere notizie. Da Roma tornò tutto incerottato e in ciabatte, ma che fosse cascato durante il viaggio io lo seppi solo quando arrivò in piazza del Comune.
Durante il percorso facevano delle tappe. La notte per lo più dormivano nei circoli del Partito Comunista che dava supporto alla manifestazione.
Qualche anno più tardi Dante, come tanti licenziati della Ginori, ottenne, grazie anche all’interessamento della Franca della Camera del Lavoro, la pensione e la liquidazione”.
La signora Marcella fa riferimento alla legge 36 del 1974 con la quale i licenziati della Ginori ottennero, oltre alla pensione e alla liquidazione, il riconoscimento della verità: i licenziamenti degli anni ’50 avevano avuto come unico scopo l’espulsione dei lavoratori sindacalizzati. Come succede spesso in questi casi però la legge non consentì un trattamento equanime e così ancora oggi i vecchi sestesi ricordano le disparità di trattamento economico che furono perpetrate.
“Mio marito era molto contento di lavorare alla Ginori, ma il licenziamento rappresentò un nuovo inizio. Dante – conclude Marcella – iniziò a lavorare per uno studio legale. Dopo qualche anno passato da dipendente, si mise in proprio e lavorò per più di venti studi legali. Nonostante avesse solo la terza elementare si fece grande onore nel lavoro e fu definito “bracciante della Giustizia”. Ne era molto orgoglioso. Nel 2001 fu nominato Cavaliere del Lavoro“.
STEFANO NICCOLI