23 aprile 1951 – Processo alla Banda Carità

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Firenze 365

Firenze 365, la rubrica curata da Daniele Niccoli, autore del libro omonimo edito da apice Libri 

Fatti e aneddoti legati alla storia della città di Firenze raccontati giorno per giorno

Un aiuto per conoscere la nostra semenza e per intuire il nostro futuro.

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti
me per seguir virtute e canoscenza   (Dante, Inferno, canto XXVI)

23 aprile 1951 – Processo alla Banda Carità

Mario Carità di fu Gesù, ovvero l’abito non fa il monaco. Questo è, infatti, il nome di uno dei più feroci torturatori assassini dell’Italia repubblichina. Fascista della prima ora, partecipò ad alcune spedizioni punitive già nel 1920. Durante il ventennio fascista fece parte dell’OVRA, la polizia segreta fascista. Dopo l’armistizio fondò il Reparto Servizi Speciali divenuto tristemente famoso come Banda Carità. Di essa facevano parte avanzi di galera riabilitati dalla Repubblica Sociale.

A Firenze la prima base della formazione fu una villetta di via Benedetto Varchi requisita per l’occasione ad una famiglia ebrea. Dopo alcuni spostamenti la banda approdò al numero 67 dell’attuale Largo Fanciullacci, una palazzina che gli stessi aguzzini chiamarono Villa Triste.

Della banda fecero parte anche due preti: il cappellano delle SS, don Gregorio Boccolini e Alfredo Epaminonda Troya. Quest’ultimo, mentre avevano luogo le torture, copriva le urla dei prigionieri, suonando il pianoforte e intonando canzoni napoletane. Lasciò la banda non per ravvedimento, ma per seguire a Roma e Milano un altro spietato torturatore fascista, Pietro Kock.

Vari, ma sempre crudeli erano i metodi per estorcere le confessioni. Si andava dalle torture psicologiche che impedivano il sonno, ai pestaggi. Se la confessione non arrivava, si passava alle scariche elettriche applicate ai genitali e alla eradicazione delle unghie con le pinze.

Tra le vittime della banda vi fu il partigiano Bruno Fanciullacci che per evitare altre torture e per non rischiare di rivelare i nomi dei compagni di lotta, si gettò, con le mani legate dietro la schiena, da una finestra che si trovava a venti metri d’altezza. Morì tre giorni dopo per i postumi del trauma cranico e di un colpo di pistola che gli era stato sparato nel fianco.

Con l’avanzare degli alleati, la Banda Carità si trasferì a Padova, ma non prima di aver rapinato la Banca d’Italia e aver saccheggiato la sinagoga fiorentina. In Veneto la banda continuò la sua spietata attività fino al 27 aprile 1945 quando gli incalliti torturatori scapparono verso il Brennero. Nel maggio dello stesso anno Mario Carità fu sorpreso da una pattuglia americana presso una pensione di Castelrotto.

Prima di essere ucciso da una raffica di mitra fece in tempo a sparare alla sua compagna. Il 25 settembre 1945 diciannove componenti della banda furono giudicati dalla corte d’Assise di Padova. Furono comminate quattro condanne a morte, ma solo Antonio Coradeschi fu giustiziato.

Le altre condanne furono commutate e nel 1964 i reati commessi furono dichiarati estinti. Gli altri imputati e condannati erano già liberi nel 1955. Altri elementi della Banda Carità furono processati il 23 aprile 1951. I venti ergastoli inflitti furono trasformati in trenta anni di carcere. Padre Troya, inizialmente rifugiatosi in Argentina, fu processato e condannato a ventotto anni, ma ne scontò solo sette. Nel 1953 era già un uomo libero.

Daniele Niccoli

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