GKN Campi Bisenzio: “Non saremo foglie di fico della fase due”

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Venti lavoratori della GKN, azienda di Campi Bisenzio, sono stati licenziati a fabbrica chiusa.
Il collettivo ha pubblicato un lungo e duro comunicato stampa che riportiamo di seguito:

Non saremo foglie di fico della cosiddetta “fase due”.
O per capirci meglio: ma di che diamine di accordi stiamo parlando?

C’è una forza sociale in campo, pienamente schierata verso la fase due. E’ Confindustria. La stessa che negli anni ha dettato lo smantellamento del sistema sanitario pubblico e che ha fatto di tutto per impedire un reale lockdown. Dovrebbero essere rintanati a temere commissioni di inchiesta e rabbia popolare. Sono invece pienamente in sella a chiedere, pretendere, disegnare la “fase due”.
E allora il rischio è evidente: il rischio che la “nuova normalità” determinata dalla pandemia contenga tutti i problemi che l’hanno causata, aggravati da una gestione “manageriale” e autoritaria. Chi è stato causa del problema, non dovrebbe essere chiamato ad essere soluzione. E invece non è così, a partire dalla famosa Task Force governativa: un organismo indefinito e spurio che vede a capo, non si sa in base a quale competenze, Colao (ex manager di Vodafone e consulente di un fondo di investimento finanziario).

E’ evidente l’impronta “confindustriale” e “manageriale” della cosiddetta ripartenza: qualche posto letto in più, corsa a chi mette le mani prima sul brevetto di farmaci e vaccino, controllo sociale attraverso droni e telefonini, migliaia di precari licenziati, qualche ora d’aria, scuole e università chiuse o riaperte a rilento e via, pedalare. La fretta sta tutta nel riaprire i cantieri, la metalmeccanica, la moda. Il resto può attendere. Il resto arriverà. Forse in futuro, forse mai.

E invece mai come in questo momento dovremmo essere noi a pretendere di essere al centro. La ripartenza deve essere tutta incentrata sui bisogni dell’uomo, non del profitto: – rimettere in piedi il sistema sanitario nazionale, universale e di qualità – varare una patrimoniale che prenda i soldi dai ricchissimi e forte progressività della tassazione – bloccare ogni licenziamento, anche dei precari – ammortizzatori sociali integrati economicamente dalle aziende – reddito sociale a chi è disoccupato – blocco degli sfratti, dei mutui e delle bollette – sostegno alle microimprese e ai professionisti, a tutto quel mondo di finti lavoratori autonomi – potenziare scuole e università con assunzioni, che permettano il distanziamento e classi più piccole – raddoppiare i mezzi pubblici per permettere il distanziamento – programmi di sanificazione periodica per permettere di usufruire nuovamente di spazi pubblici e aperti.

Il concetto dovrebbe essere semplice: se si può produrre in sicurezza, deve essere possibile fare anche tutto il resto in sicurezza. E aggiungiamo: la sicurezza non può essere intesa semplicemente come l’adozione di mezzi di protezione individuale e di controllo sulla persona, magari solo all’interno dell’unità produttiva. Nè può essere intesa come un nuovo stato d’eccezione dove di giorno in giorno commissioni di “esperti” – tanto più se manager – dettino deroghe, provvedimenti e tempi che hanno una ricaduta sulla nostra vita sociale e perfino democratica. Oggi più che mai “sicurezza” vuol dire la garanzia di uno stato sociale esteso, complessivo, globale.
Per questo è tanto più sbagliato rigettare sui singoli delegati sindacali o Rls, ma anche solo sul singolo territorio o sulle singole categorie l’obiettivo di firmare “protocolli” e “accordi” che magari pretendano di certificare o garantire “la sicurezza dei lavoratori”. Ed è sbagliato per diversi motivi.

Punto primo: perché a una forza sociale complessiva va contrapposta una forza sociale complessiva. Obiettivi generali necessitano di una mobilitazione generale. E’ necessario un’azione unificata e generale delle organizzazioni dei lavoratori ai fini di dettare sostanza, modi e tempi della “nuova normalità”. Non si può quindi tornare alla situazione precedente al lockdown dove in ordine sparso le singole aziende hanno iniziato a scioperare per imporre la chiusura delle produzioni non essenziali.

Punto secondo: non si può far finta che nulla sia successo. Non si può tornare al tavolo con le aziende facendo finta che in Lombardia e Veneto non sia avvenuto un vero e proprio crimine confindustriale. Non si può ricominciare senza un piano di lotta reale per rivoltare come un guanto tutto il sistema sanitario e di assistenza alla persona. Nel comparto sanitario in particolare, i nostri colleghi sono stati infettati, mandati al macello senza protezioni adeguate. Di questo stiamo parlando. Nè si può tollerare che continui quel sistema di appalti e subappalti che più colpisce i lavoratori delle pulizie, altri grandi esposti di questa pandemia.

Punto terzo: la sicurezza è spesso esigibile per legge. Il datore di lavoro non deve mettere in campo le misure di sicurezza “per accordo” con le organizzazioni sindacali. Lo deve fare per legge. In base al Testo Unico sulla Sicurezza e ai vari Dpcm fin qua varati. Questo non vuol dire che sindacato e lavoratori non abbiano ruolo. Anzi. Rsu, Rls e organizzazioni sindacali, ma anche singoli lavoratrici e lavoratori, possono e devono vigilare e pretendere insieme agli organismi competenti che tale misure di sicurezza siano effettive, efficaci, chiare e scritte. Si può mettere in campo un’azione per migliorare la normativa vigente. La garanzia e la responsabilità della sicurezza è invece tutta in capo al datore di lavoro.

Il Testo Unico e i diversi provvedimenti governativi, con i rimandi ai diversi testi delle autorità sanitarie, già determinano e stabiliscono:

– l’obbligo di aggiornare il Documento di Valutazione dei Rischi (Dvr)
– l’obbligo di abbattere il rischio ambientale (in questo caso prendendo tutte le misure necessarie al distanziamento sociale di oltre un metro)
dopo aver tentato di abbattere il rischio ambientale, fornire i dispositivi di protezione individuale
– al momento della consegna dei dispositivi di protezione individuale, fornire adeguata formazione sul loro uso, fare prova di vestibilità e specificare ogni quanto deperiscono e vanno cambiati
– le aziende devono garantire pulizia e sanificazione periodica. La sanificazione va ripetuta nel tempo, con periodicità, e deve essere certificata. Piani di pulizia e sanificazione che non comprendano potenziamenti del personale di pulizia, attraverso nuove assunzioni e/o ditte dedicate, sono evidentemente fittizi.
– lle aziende devono garantire il “tempo tuta” all’interno dell’orario di lavoro. Non solo la consegna delle divise da lavoro ma anche la loro pulizia e sanificazione dovrebbe essere a carico dell’azienda
tutti i diritti contrattuali e di legge, dall’assemblea sindacale fino a spogliatoio e mensa, devono comunque essere garantiti attraverso una loro riorganizzazione

Aggiungiamo che le misure di scansione termica all’entrata del luogo di lavoro non hanno nessuna reale efficacia nel contenere il contagio: la febbre è solo uno dei sintomi, spesso la si sviluppa dopo gioni in cui si è positivi ed esistono gli asintomatici. In compenso violano lo Statuto dei Lavoratori e costituiscono un grave precedente. Semmai, per fare il punto zero sul contagio e isolare i focolai sarebbe necessaria una chiara politica pubblica sui tamponi.
Tutto questo deve e doveva essere fatto da ogni azienda, su ogni territorio, in ogni categoria per legge. Vale per le grosse aziende e a maggior ragione per le piccole, appalti, diretti o indiretti. E le organizzazioni sindacali, gli Rls ed ogni singolo dipendente possono pretendere che tutte le misure prese siano messe per iscritto, vigilare sulla loro effettività, chiederne l’implementazione e riservarsi di valutarle insieme agli organismi competenti.

Lanciarsi invece a firmare “protocolli” e “accordi” sulla sicurezza, magari lanciandosi in rassicurazioni che così “si può lavorare in sicurezza”, non ha nessuna effettività su quanto già deve essere garantito dalle aziende per legge. Nella migliore delle ipotesi ratifichiamo quanto già ci è dovuto, spacciandolo per una conquista. Nella peggiore delle ipotesi servono solo a lanciare un messaggio psicologico: tutto bene, si può ripartire.
E serve poco difendersi dicendo: non siamo noi, sono gli esperti e le autorità sanitarie a dover dire quando riaprono le fabbriche. Serve poco e non è nemmeno totalmente vero. Se il sindacato certifica che va tutto bene, attraverso un accordo, perchè qualcuno dovrebbero dire il contrario? Oltre tutto siamo in una pandemia dove “gli esperti” hanno già detto tutto e il contrario di tutto. Come se poi i i primi “esperti” del nostro luogo di lavoro non fossimo noi stessi. Quanto successo, ad esempio, in Fca dove una lettera del dottor Burioni ha “benedetto” l’accordo tra le parti sociali, è un precedente odioso e pericoloso.

Siamo i lavoratori, la classe operaia, “poco studiata”, assenteista, essenziale, esubero, mal pagata, frantumata, precaria, che fatica a pagarsi il dentista, il mutuo, l’affitto, che si carica di rate per macchinoni appariscenti di cui faremo fatica a pagare bollo e assicurazione, a volte analfabeti da sempre, a volte di ritorno, minacciati dalla disoccupazione, dagli straordinari, dal non lavorare o dal morire di lavoro, che non va a votare o che molto più spesso vota per quel Governo che poi ci taglierà pensioni, salari, diritti. Ma non siamo noi coloro che hanno diretto la società, portandola a questo punto. Noi siamo stati a guardare mentre gli studiati, i grandi manager, gli economisti, i grandi giornalisti, pontificavano, spiegavano, giustificavano. Adesso siamo stufi e incazzati. Adesso è l’ora di parlare, pretendere, agire. Che l’organizzazione sindacale si metta a disposizione di questo sentimento. Prima che sia troppo tardi. L’ora dei giochini, dei proclami e degli equilibrismi è finita“.

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