18 settembre 1988 – Sestesi alla Festa dell’Unità Nazionale

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Sesto giorno per giorno la rubrica curata da Daniele Niccoli, autore del libro Sesto una bella storia e Sesto Fiorentino, i giorni della nostra storia

Un aiuto per conoscere la nostra semenza e per intuire il nostro futuro.

La casa sul confine dei ricordi,
la stessa sempre, come tu la sai
e tu ricerchi là le tue radici
se vuoi capire l’anima che hai (Francesco Guccini)

Sesto giorno per giorno

18 settembre 1988 – Sestesi alla Festa dell’Unità Nazionale

Sono quasi le due di notte e, come succede ormai da una settimana, sto tornando in motorino (ah, il vecchio Testi) da Campi. L’aria fresca mi tiene sveglio. Ce n’è bisogno perché sono stanco. Oggi era l’ultimo giorno della Festa Nazionale dell’Unità e al ristorante dell’unione sovietica, gestito da alcune sezioni di Sesto sono venuti in molti. Una bella soddisfazione anche se la pizzeria del Paladini, con l’altra parte dei sestesi, ha veramente spopolato. La cosa più bella è stata constatare ancora una volta la passione dei militanti e l’affetto che questo nostro partito è in grado di ricevere. Eravamo in molti a lavorare per la buona riuscita del festival e stasera più di uno, felice, si è abbandonato alla birra. Io sono uno di quelli. Meglio andar piano col motorino. Insieme a me, stanchi, sudati e un po’ brilli, tanti ragazzi che forse saranno gli amministratori di domani. Glielo auguro e me lo auguro perché ho fiducia in loro.
Dentro di me però qualcosa non gira per il verso giusto. Ho visto negli occhi dei cuochi lituani l’odio nei confronti dei cantanti russi, ho visto troppi dirigenti fare passerella mentre c’era bisogno di sbucciare le patate.

Perché è venuto ormai il momento di negare
tutto ciò che è falsità, le fedi fatte di abitudine e paura,
una politica che è solo far carriera,
il perbenismo interessato, la dignità fatta di vuoto,
l’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto
è un dio che è morto (Francesco Guccini)

Ho ascoltato il discorso di Occhetto e non mi è piaciuto. Sono passati quattro anni dalla morte di Berlinguer ma oggi, più che mai, avverto la sua mancanza.
Quando parlava mi sentivo di far parte di una comunità che voleva cambiare il mondo. Oggi mi pare che non sia più così.
Non so se sia una sensazione condivisa. Come gli altri, in chiusura, ho cantato Contessa, Fischia il vento e Bandiera rossa ma io ero nervoso. Come fosse l’ultima volta. Forse è stata l’ultima volta.
Caro Enrico, da quando non ci sei più non si parla più di questione morale, di giustizia sociale e redistribuzione della ricchezza; non riusciamo a contrastare l’edonismo reaganiano e, anzi lo avverto come un male che sta prendendo il sopravvento anche su di noi.
Continuerò a stare dalla parte di quelli che hanno meno voce, dei più deboli, di quelli che vivono per la pace, di quelli che credono nell’inclusione e non hanno paura del diverso ma, Enrico, dovremo trovare una strada diversa e senza di te è dura.
Ripongo il motorino e i pensieri tristi. Con questo settembre si conclude definitivamente il periodo della scuola. Dopo la laurea ho svolto anche il tirocinio e superato l’esame di stato per l’abilitazione. Da domani si cerca lavoro!

Qualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri.
Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo, perché era disposto a cambiare ogni giorno, perché sentiva la necessità di una morale diversa, perché forse era solo una forza, un volo, un sogno, era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita.
Qualcuno era comunista perché con accanto questo slancio ognuno era come più di se stesso, era come due persone in una.
Da una parte la personale fatica quotidiana e dall’altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita.
No, niente rimpianti.
Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare, come dei gabbiani ipotetici.
E ora?
Anche ora ci si sente come in due:
da una parte l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della
propria sopravvivenza quotidiana
e dall’altra il gabbiano, senza più neanche l’intenzione del volo, perché ormai
Cosi, il sogno si è rattrappito. Due miserie in un corpo solo. (Giorgio Gaber)

Daniele Niccoli

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