DAD: non significa “babbo”. O meglio: non in questo contesto. Stiamo parlando della didattica a distanza, purtroppo “diventata di moda” a causa della pandemia da Coronavirus. E proprio su questo argomento si è concentrato Filippo Sanzò, nuovo collaboratore di tuttosesto.net. Vi proponiamo il suo primo articolo. Buona lettura!
Sembra passata un’eternità, ma in realtà è solo un anno, 9 marzo 2020 per la precisione, giorno in cui per tutti gli studenti d’Italia è iniziata la DAD (didattica a distanza) a causa dello scoppio della maledetta pandemia di COVID-19.
Un intero anno che ha trattenuto gli studenti, anche quelli della Piana, nelle proprie abitazioni davanti ad un monitor per un periodo di tempo quasi continuativo.
Molti dipingono la DAD come una soluzione valida per la scuola: “Tanto in fin dei conti cosa cambia? Possono apprendere le stesse nozioni sia da casa che da scuola”.
Qualcosa, anzi più di qualcosa, cambia: l’attenzione dei ragazzi per la lezione, costantemente deviata da distrazioni come il telefono o la Play-Station; il calore dei professori che, pur con coraggio ed impegno, non riescono a trasmettere agli argomenti trattati la stessa forza ed energia che avrebbero trasmesso in presenza. D’altronde chi ci riuscirebbe? Chi riuscirebbe a diffondere passione senza poter leggere le reazioni e le espressioni dei propri studenti, senza capirne le intenzioni, senza carpire ciò che stanno pensando?
Le giornate sono tutte uguali: sveglia, cinque ore di lezione davanti al computer, compiti, letto e così via da un anno a questa parte. Non c’è differenza tra un giorno di lezione e il fine settimana, tra una spiegazione di storia dell’arte e una di chimica, tutto è ugualmente grigio. L’apatia è la compagna inseparabile, gli impegni vengono rimandati alle ore successive. La sera arriva in un batter d’occhio senza aver prodotto niente e avendo sprecato tempo prezioso; tutto ciò si ripete il giorno dopo, e quello dopo, e quello dopo.
La DAD e la zona rossa in generale hanno ripercussioni oltre che sull’istruzione, anche sulle relazioni umane. Non c’è più spazio per gli abbracci tra amici, per una battuta con il compagno che spezza il ritmo delle lezioni, per le relazioni con gli studenti di altre classi o con i professori durante la ricreazione, per incrociare lo sguardo della ragazza o del ragazzo che ti piace o per la fila al bar.
Il ruolo della scuola è di formare persone adulte in grado di inserirsi nella società in modo produttivo e per fare ciò un ragazzo non deve solo imparare a memoria le nozioni del libro di testo, ma anche e soprattutto imparare a relazionarsi, riuscire a capire i comportamenti altrui e fare gioco di squadra. Attività impossibili con la didattica digitale.
E proprio questa situazione di forzato isolamento potrebbe produrre sui ragazzi più fragili o con più difficoltà a socializzare, già inclini a rifugiarsi nei social e nel mondo virtuale, effetti disastrosi: questa potrebbe diventare la loro normalità permanente anche dopo il COVID, facendo preferire loro la comodità del divano a una sana uscita con gli amici.
I problemi non finiscono qui. Non solo i ragazzi sono stati privati di un periodo importante per la loro formazione, hanno dovuto fare a meno di qualsiasi svago come lo sport, la frequentazione dei locali e delle feste di compleanno, ma devono anche essere additati come gli “untori” del Paese: è solo per colpa loro che la gente continua ad ammalarsi. L’odio accumulato, l’impossibilità di sfogarsi, la reclusione e la solitudine hanno determinato gravi conseguenze come le mega risse verificatesi a Napoli e Roma.
I ragazzi coinvolti non sono da assolvere, visto che, con le loro azioni sconsiderate, hanno rischiato di sovraccaricare il già stressato sistema sanitario e di vanificare gli sforzi degli altri giovani. Perché sì, forse a qualcuno potrà sembrare strano, ma la maggior parte dei ragazzi si è comportata bene e ha rispettato tutte le norme anti-COVID.
A chi rivolge queste accuse ai ragazzi può tornare utile un proverbio dei Sioux: “Prima di giudicare una persona, cammina per tre lune nelle sue scarpe”.
Chi paga il prezzo più alto per questa tragica situazione sono proprio i giovani che hanno dovuto rinunciare a due anni della loro adolescenza e a una parte del loro futuro. Che sia loro risparmiato almeno il fardello della colpa.
La situazione sanitaria è la priorità, ma, conti alla mano, non sono le scuole la maggior fonte di contagio, visti i protocolli precauzionali adottati dalle stesse. Perché ci ostiniamo a metterle sempre all’ultimo posto?
Perché continuiamo a considerare la scuola come un qualcosa di secondario e non le diamo l’importanza che merita? La scuola forma i politici, i professionisti e i cittadini di domani. Lo Stato non ha futuro senza la scuola.
FILIPPO SANZO’