Il medico sestese Enrico Solito in Calabria con gli ‘ultimi’ di Rosarno: “Situazione disperata”

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Rosarno
Foto di Lorenzo Leonardi

Se i pomodori e le arance che fanno parte della nostra dieta potessero parlare ci racconterebbero sorprendenti storie di miseria e sfruttamento. Ci racconterebbero di mani incallite dal duro lavoro, di giacigli sporchi e pericolosi, di diritti negati e di speranze disilluse.

Pomodori e arance, però, non parlano e se vogliamo aver testimonianza delle condizioni di quelli che lavorano affinché i prodotti arrivino sulla nostra tavola e che abbiamo definito come “ultimi” dobbiamo chiamare in causa chi ha messo la propria professionalità a disposizione della loro causa.

E’ il caso degli operatori di MEDU (Medici per i Diritti Umani) che dal 2004 si prodigano per portare assistenza sanitaria e legale alle persone più vulnerabili in varie parti del mondo.

Enrico Solito
Enrico Solito – Foto ripresa dal suo profilo Facebook

Dopo aver parlato con Lorenzo Leonardi, responsabile del progetto Rosarno (Calabria), abbiamo intervistato Enrico Solito, noto pediatra sestese e medico volontario dell’associazione. Normalmente attivo sul camper che viaggia tra Firenze, Prato e Pistoia per portare assistenza ai senza tetto, Enrico è reduce da un periodo passato nella tendopoli di Rosarno dove quasi duemila braccianti agricoli lavorano e vivono in condizioni disperate.

A lui, che ha alle spalle esperienze anche in altre parti del mondo, abbiamo chiesto un’opinione su quanto ha visto:

“L’attività medica rappresenta solo il primo approccio con queste persone che vivono in stato di estremo disagio. L’obiettivo dell’associazione è anche quello di fornire un sussidio legale e un accompagnamento a superare gli ostacoli della burocrazia italiana per far valere i diritti, tra cui il principale è proprio quello dell’assistenza medica.

A gennaio sono andato in missione per la prima volta a Rosarno nella piana di Gioia Tauro. La situazione del campo è complessa. E’ costituito da capanne e da tende prive di riscaldamento e in cui vivono contemporaneamente quattro o cinque persone. L’unica possibilità per riscaldarsi è quella di bruciare legna dentro bidoni di ferro che, una volta ridimensionate le fiamme, vengono trasferiti all’interno delle tende con il rischio di incendi e di avvelenamenti da monossido di carbonio. Il tutto avviene in prossimità di bombole di gas che servono per alimentare i fornelli.

Rosarno
Foto di Lorenzo Leonardi

Agli evidenti problemi di sicurezza si aggiungono quelli legati alla promiscuità. L’influenza e, peggio che mai, il Covid hanno trovato terreno fertile in un ambiente di questo genere.

Nonostante questo le malattie più frequenti sono quelle che potremmo definire professionali cioè legate al duro lavoro svolto: sciatiche, dolori muscolari e mal di schiena. Patologie infettive come tifo, colera e scabbia, nonostante le condizioni igieniche non ideali, sono assenti.

I ragazzi del campo, nonostante l’assenza di docce, sono molto attenti all’igiene personale. Riscaldano l’acqua e trovano il sistema per lavarsi. Frequente è, invece, l’ipertensione dovuta anche a fattori genetici. Il trattamento di questa patologia richiede terapie croniche difficili da gestire sia per questioni di mentalità che per questioni logistiche. In un contesto di questo genere diventa assolutamente necessario il supporto di un equipe come quella di MEDU.

Le visite vengono effettuate sul camper in giorni e momenti prestabiliti in modo che il servizio sia fruibile ai più. Insieme al medico sono sempre presenti i responsabili della logistica, un mediatore culturale e, spesso, anche un avvocato in grado di gestire le formalità burocratiche che per i ragazzi del campo sono tutt’altro che semplici da risolvere.

Rosarno
Foto di Lorenzo Leonardi

Nel casi in cui si renda necessario il ricovero o la visita in ospedale, i mediatori culturali accompagnano i pazienti al nosocomio affinché possano avere una adeguata assistenza.

L’aspetto più terribile e angosciante è però rappresentano dal fatto che il campo di Rosarno non è una vera e propria comunità. Lì ci sono solo uomini che lavorano sei mesi in Calabria per la raccolta degli agrumi e che poi si spostano a Foggia per la raccolta dei pomodori. Niente di paragonabile nemmeno con i poveri villaggi dell’Africa dove magari si muore di malattia, ma ci sono donne, bambini e uomini di fede. Insomma, un’organizzazione sociale. Qui, invece, solo maschi fra i trenta e i quaranta anni costretti a vivere in condizioni miserrime, in mezzo al fango, alle galline e ai topi. Sono disperati, nel vero senso della parola: hanno perso la speranza. La maggior parte di loro vive lì da più di dieci anni, il 92% di loro è in regola con il permesso di soggiorno, sono in Italia ma niente di tutto ciò è di conforto per loro.

In prossimità del campo sono state costruite, con i soldi dell’Europa, case che avrebbero dovuto accoglierli e che invece rimangono lì a marcire nonostante le promesse che continuano a non essere mantenute”.

Dottore, come se ne esce?
“Non bisogna farsi prendere dalla disperazione e mantenere la speranza. Bisogna continuare ad avere il coraggio di andare avanti malgrado tutto. Continuare a pensare che piano piano, e con il lavoro, le cose cambieranno. Spostare un granellino perché alla fine si formi una montagna. Insomma, è necessario lavorare e mantenere l’ottimismo. Per esprimere il mio parere prendo a prestito una frase recentemente recitata dal vescovo di Cosenza ma da attribuire a Gianni Rodari: Se non sperassimo, a dispetto di tutto, in un mondo migliore, chi ce lo farebbe fare di andare dal dentista?'”.

STEFANO NICCOLI

 

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