Nuovo appuntamento con la rubrica “La parola all’avvocato” curata dagli avvocati Elisa Baldocci, Maria Serena Primigalli e Marco Baldinotti.
Gentile avvocato,
sono un lavoratore straniero, e svolgo la mia mansione come badante e collaboratore familiare presso una famiglia. Prima di essere licenziato, due mesi fa, il mio datore di lavoro ha smesso di darmi lo stipendio. Quando io ho cominciato a lamentarmi lui mi ha dato degli acconti a mano, poi più nulla, per una cifra molto inferiore al mio stipendio. Alla fine, aveva preparato dei documenti da farmi sottoscrivere, nei quali si diceva che tutti i mesi mi erano stati pagati, e che io non avevo più nulla da richiedere a lui. E’ regolare questa cosa? Come devo comportarmi?
“Caro lettore,
per rispondere alla tua domanda occorre partire dal principale articolo del codice civile sul tema. L’art.2113 infatti, recita così: “Le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti non sono valide. L’impugnazione deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della rinunzia o della transazione, se queste sono intervenute dopo la cessazione medesima. Le rinunzie e le transazioni di cui ai commi precedenti possono essere impugnate con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, del lavoratore idoneo a renderne nota la volontà”.
Alla luce del citato articolo appare eveidente che nessun lavoratore possa rinunciare per iscritto a quelli che sono i suoi diritti, maturati in costanza del rapporto di lavoro. Qualsiasi altro accordo in tal senso sarebbe nullo. Il lavoratore avrebbe la possibilità di impugnare l’eventuale documento entro sei mesi dalla sua firma. Tale impugnazione può essere effettuata con qualsiasi mezzo e senza l’uso di formule specifiche, dovendo semplicemente contenere un’esplicita manifestazione della volontà di revocare il consenso prestato alla rinuncia del proprio diritto.
Le rinunce e le transazioni sono invece perfettamente valide (e non più impugnabili) se sottoscritte in talune “sedi protette” (conciliazione in sede amministrativa, sindacale o davanti al giudice).
La dichiarazione rilasciata dal lavoratore, che dà atto di aver ricevuto una determinata somma a totale soddisfacimento di ogni sua spettanza e di non aver null’altro a pretendere dal proprio datore di lavoro, viene chiamata “quietanza a saldo” o “liberatoria”.
La stessa costituisce una semplice manifestazione del convincimento dell’interessato di essere stato soddisfatto di tutti i suoi diritti, salvo i casi in cui assume il valore di rinuncia o transazione.
Inoltre, norma dell’art. 2113, ultimo comma, cod. civ., nel testo introdotto dall’art. 6 della legge 11 agosto 1973 n. 533, soltanto la conciliazione conclusa dinanzi alle apposite commissioni presso l’Ufficio provinciale del lavoro, ovvero in sede sindacale, e la conciliazione giudiziale concretano una transazione sottratta alla disciplina -in tema di invalidità e relativa impugnativa-dettata dagli altri commi dello stesso art. 2113 e precludono al giudice l’accertamento della situazione preesistente e della violazione di disposizioni inderogabili eventualmente attuata con gli atti transattivi.
In altre parole, come ci ricorda una recente sentenza della Corte di Cassazione, perché un documento sottoscritto dal lavoratore in tema di rinuncia e transazione non sia impugnabile, occorre la presenza di un sindacato e/o di un avvocato. Infatti e concludendo, “in materia di atti abdicativi di diritti del lavoratore subordinato, le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro previsti da disposizioni inderogabili di legge o di contratti collettivi, contenute in verbali di conciliazione conclusi in sede sindacale, non sono impugnabili, a condizione che l’assistenza prestata dai rappresentanti sindacali – della quale non ha valore equipollente quella fornita da un legale – sia stata effettiva, così da porre il lavoratore in condizione di sapere a quale diritto rinunci e in quale misura (Sentenza n.21617/2018)”.
Avv. MARCO BALDINOTTI
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